Tempore mortis

Se mi capiterà di avere un personaggio da far morire, credo che gli sceglierò un posto tipo qui da noi. In città non sarebbe la stessa cosa.

Prendi ad esempio la signora Gina, donna attempata e di anziana vedovanza, quei pochi che ricordano il marito dicono che era uno che stava zitto, un passo indietro, lei ha sempre tenuto le redini della casa. La signora Gina dunque, in un ipotetico racconto, è destinata a morire.

Morirebbe poi anche a Torino, l’Eguagliatrice è indifferente al luogo come alla stagione. Solo, se ne accorgerebbero dopo. Questo a motivo del fatto che la signora Gina ha sì un po’ di prole, ma all’atto pratico è come se non, essendosi i figli maritati in grandi città e lontane. Ogni sera, prima di coricarsi, riceve la telefonata della primogenita Cristina. Nonostante il travaso a Roma e le scuole alte, Cristina le parla ancora in dialetto:

“Mama, me ca va?”

L’inconveniente è che la Gina sarebbe sorda anzichenò, e vieppiù con l’età avanzante e l’ora serale: dunque quando Cristina non ricevesse risposta, immaginando la mamma in balcone o intronata dalla tivù, e considerata la distanza eccessiva per andarsi ad accertare di persona, riaggancerebbe con leggerezza. E le volte che tale defezione dal teleappuntamento si era verificata, sempre il giorno dopo la signora Gina aveva risposto col tono di chi non dà importanza all’esser sparita un giorno intero

“Fora dal let, preocupate nin”.

Quella sera, che muore, Gina non risponde più. Ma Cristina si preoccupa solo la sera successiva, chiama il fratello che sta più vicino, chiama magari qualche soccorso.
Se non fosse che noi del paese ci siamo già accorti. Le persiane sono rimaste chiuse al mattino, o addirittura aperte dalla sera prima. La Gina non si è vista al rosario a San Giuseppe, e nemmeno è passata stamattina dalla Fiore per il pane. Il cane abbaia, che non ha mangiato. E allora lo seguono gli altri, e da un capo all’altro del paese i cani strillano e ormai lo sappiamo tutti, che qualcosa è successo.

Penso che in via Tunisi a Torino sud non farebbero così attenzione alle persiane, che lì poi sono tapparelle. Se non altro, non sarebbe un evento notevole. Credo che tra i tanti clienti Carmen cassiera del Diperdì, se pure si accorge che la Gina non passa, non saprebbe come andarla a cercare. E poi, credo, i cani di città son più genati ad abbaiare.
Gina si sarebbe trasferita in via Tunisi da un paio d’anni, divenuto scomodo l’appartamento quasi centrale in corso Regina per via di ascensore assente e approvvigionamenti difficoltosi. Quando era giovane a Torino sud non c’era niente, non c’era neppure Torino, si andava là come in campagna a fare i scemi. Poi sono arrivati su in tanti, con le valige di cartone ma bravi che lavoravano, le loro madame pulite e in ordine con quel poco che avevano. Gli hanno fatto via Tunisi e le fabbriche lì vicino, e il mercato e i negozi, e adesso si sta più tranquilli lì che in centro. E infatti i vicini la trattano bene, le tengono la porta e dicono Signora quando viene e quando va. Non sono rumorosi, si fanno i fatti loro.

La Gina su da noi invece è nata in quella casona al 18, da allora hanno solo rifatto il tetto al fienile e allargato il muro dietro e messo il filo spinato che non vengano a rubare. Vi si è presa le sgridate dai genitori (poche, in verità), ci ha portato il marito a chiederla, che veniva da Asti ai tempi dei partigiani, ha poi tolto il nome del marito dalla buca, tenendone per lei il cognome di vedova. E ora ci muore anche lei. Quella casa è lei, si apre e si chiude coi giorni di lei, come a me dicono ancora “cul ca sta da la Celansa” che la Celanza è morta son vent’anni il mese prossimo.
Una volta che sentivamo battere la signora Gina, tum, tum, abbiamo proprio creduto chiedesse aiuto. Ci ha aperto coperta di sangue: stava facendo orrendo scempio di un coniglio, osso per osso, con la mannaia: venivano a trovarla i nipoti di Milano.

Il poliziotto che vien su da Torino per i seggi racconta le storie del suo lavoro, con un po’ di compiacimento a farle proprio da cinema. Richiesto se spesso veda cadaveri, dice trovarne ogni sera, che spesso chiamano lui a tirar giù porte più che i pompieri, e qualche volta pure è lì col morto e gli viene fame. Poi aggiunge che i poliziotti di qui non sono veri, vedono solo galline.
Ecco, a dover far morire la Gina, mi piacerebbe che poi chiamassimo il vigile di Salassa a fare l’irruzione. Che dopo torna a casa guardando basso e salta cena, e se la moglie gli chiede “E’ per le galline?” lui fa no e piagnucola: “Hanno chiamato me. E’ mancata la Gina”.
Suonano le campane:

“Chi ch’alé mort?”.

Dodici tocchi.

“L’è ‘na fumna”

E quando più tardi Battista e Raimondo, braccia dietro la schiena e cappello in testa, arrivano come ogni giorno a controllare i tiletti, trovano già gente davanti, e le macchine che rallentano per guardare l’affissione

Cristianamente è mancata all’affetto dei suoi cari
Luscietto Luigia detta Gina
ved. Canelli

e c’è anche la foto da una remota ridente mezzetà, che “A smia nen chila!” e Raimondo: “Quand che l’u coniussua a l’era parei!”. Al rosario, visto che manca lei che non ne perdeva mai uno, si usa che ci andiamo tutti del paese. Al funerale invece ci affacciamo dal giardino, perché il comune ha chiamato anche la banda (di Salassa anche quelli, come il vigile) per la sua concittadina antica.

Il punto chiave di mettere la Gina a morir da noi è che in città non ci sono i tiletti. Non sanno neppure che sono, tante volte. A che servono? Ci si telefona, o si fa l’annuncio sul giornale, e in un certo senso è il morto che ti deve venire a cercare sperando di interessarti. Come si fa con una festa. Oppure mettono il drappo davanti alla chiesa (ma quale chiesa?) e però quello lo facciamo anche noi.
Sotto l’occhio onnipresente del baffo Moretti, affacciato alle bottiglie da 66cl. condivise un bicchiere a testa, il bar della società commemora la signora detta Gina, pochi racconti in tutto, ma ripetuti.
Uno è quello del coniglio scempiato, di cui già si è detto.
Due che faceva la pipì sotto gli alberi in fondo al giardino senza curarsi se la vedesse qualcuno, che metteva su il falò a tutte le ore e così si distingueva casa sua fin da Belmonte, e insomma quel piccolo album che potremmo chiamare anedottica dell’orto.
Poi si parla della Gina in auto, nella fattispecie una vecchia 127 blu che doveva aver comprato usata da qualche giovanotto, per via di vistose griglie di raffreddamento cromate rievocanti il mondo delle corse, e due strisce adesive arancioni, fiammeggianti, che correvano parallele dal cofano al dietro. Ma lei guidava poi piano, sebbene con rombo da gara per via che mai, pare, andò oltre la seconda marcia, e stava alta e altera col volante schiacciato al petto. In città, avrebbe saputo di sicuro far di più coi motori, perlomeno usar le frecce e incolonnarsi, parcheggiare in retromarcia e riconoscere una precedenza. Avrebbe conosciuto fino ad inebriarsene i suoi diritti di automobilista e quelli di pedona, come certe signore cittadine che attraversano inopinatamente, o tengono la corsia di mezzo.
Solo che noi qui come scendi in strada hai già un po’ anche attraversato, e i nostri vecchi, a piedi o in macchina, conoscono un solo modo. Lento-avanti. E lei a Torino era stata solo nel ’46, in viaggio di nozze all’Hotel Miramonti camera 18. Così che lei diceva che tutto dove aveva abitato nella vita combinazione era al 18.
E questo del viaggio di nozze era il grande aneddoto di quella sera alla società, perché non è poi un’offesa ridere sui morti, e però intercalare sa di giustificazione: “Eh, buon anima”; e forse per levare a ognuno ogni colpa (tanto più bizzarramente tempore mortis) : “Eh, la vita è così”.
Ma poi si facevano anche i racconti più tristi, ritornando a casa perlopiù. Di quando lei diceva “Ma che il Signore mi prenda, che sto a fare senza nessuno?” e il Signore -visto?-  l’aveva poi contentata. E poi della sua grande paura “Che i miei figli mi portino in qualche ricovero a Milano a Roma vicino a loro. Finché riesco a star sola, bene, ma poi voglio morire qui ”.

Credo che se non fosse un personaggio di un mio racconto, se fosse stata insomma una Gina vera, gli eredi l’avrebbero poi portata davvero al ricovero già da un po’, e mi immagino che sarebbe stata triste là, non brava a tenere compagnia e con il magone fisso al paese. Ma a me piace farla morire qui, che vero che morire è sempre dappertutto morire, ma almeno non di nostalgia.
Mi piace che lasci senza di lei un posto grande, come questa casona inutilmente a più piani, che io non conosco bene nessuno che ci sia entrato. E il giardino davanti e l’orto dietro, che ha lavorato fino al pomeriggio prima, e il ciliegio che sconfina dalla nostra nonostante il filo spinato, quindi a rigore mangiarne non è rubare. E adesso quando il pallone va di là potremo andarcelo a prendere, non come prima che aspettavamo ce lo ridesse (anche bucato, una volta che si era esasperata). Che lasci un posto grande, che faccia vuota una certa percentuale di paese, almeno per un po’.
Mi piace che vada a stare qui poco lontano, a far pieno un posto piccolo come piccoli quasi tutti i loculi del mondo, a meno che non si sia fatto un impero o smosso degli eserciti. Ma in un cimitero anche lui piccolo, vicino al marito buonanima-anche-lui e a gente che almeno di vista l’aveva conosciuta. Così che entrando vedi dove è la Gina, lì ci sono tanti fiori e i più freschi, almeno per un po’.

Questo, se mi capitasse un personaggio da far morire. Se invece si trattasse di innamorarmi, sceglierei diversamente. Come quando tre volte giro intorno al teatro a cercar posteggio, tu che mi aspetti sul marciapiede là davanti batti il piede. E tre volte mi punti addosso quello sguardo. Segui il mio ritardo, il mio guidare fieramente impacciato nel traffico. E quando trafelato chiedo “Scusa”, con quegli occhi mi dici ridendo “Campagnolo”.

 

Premio letterario ‘Provincia cronica’ prima edizione
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