Era una notte di fitta nebbia,
e Ottavio Riccardi, il mio alter ego, se ne stava da un pezzo di fronte allo schermo del computer, bianco.
Non aveva che un incipit:
Era una notte di fitta nebbia,
che aveva ricavato semplicemente affacciandosi alla finestra.
Ora, quando un artista guarda la nebbia e l’unica cosa che gli viene in mente è la nebbia, indubbiamente ha un problema; e quando il mio alter ego ha un problema, ci puoi giurare che ce l’ho anch’io. C’è da credere che se avesse continuato a scrivere avrebbe finito col parlare di se stesso, che è quanto di più inutile e scontato e meno interessante si possa fare, in una notte di nebbia.
Ma non era una nottata buona, per Ottavio; per la verità neanche una mesata; anzi a dirla tutta erano già un bel po’ di stagioni che non riusciva più a ingranare. Come dargli torto: avere 27 anni non sempre è facile, averne 28 comincia a pesare, a 29 senti il fiato sul collo e a 30 è vento forte, ma 31: 31 è veramente troppo! Troppo per navigare a vista.
C’erano voluti i suoi genitori, a farglielo capire. Una sera, a tavola, che Ottavio parlava di lavoro (o meglio, di non-lavoro) e aveva concluso con un sospiroso…
OTTAVIO:
Chi vivrà vedrà…
[Silenzio]
BABBO:
C’è il tabasco nello spezzatino?
MAMMA:
Qualche goccia. Non vi piace?
Ciò che non era piaciuto ad Ottavio non era tanto il tabasco, quanto piuttosto il [silenzio]. Lui, l’orgoglio della famiglia, quando altre volte diceva “chi vivrà vedrà” i suoi erano stati zitti, con certi occhi brillanti fiducia come a dire “Vedrai…vedrai!”. Questa volta invece erano stati di nuovo zitti, però con certi occhi luccicanti tristezza, come a dire
“Chi vivrà vedrà, ma vivere è già un po’ che vivi, quando ti decidi a vedere?”
Anche il tabasco, però, non gli piaceva. Da sempre. Che la mamma lo usasse era come dire che ormai i genitori si regolavano per conto loro, che anche lui avrebbe dovuto regolarsi per sé.
Gli venne una tale fiamma alla bocca dello stomaco, un po’ per il tabasco un po’ per il nervoso!
OTTAVIO:
No cazzo, mamma. Lo sai.
MAMMA:
Non avevo capito che venissi a cena.
Aspettative sbagliate. Come sempre. Era mica colpa sua? Guardava quei due silenziosi invecchiati tutti intasati dal desiderio di un nipotino, di un figlio sistemato, di una storia che andasse come se l’erano scritta in testa. Gli venne un pensiero cattivo, pensò che allora neanche da vecchi si impara a non illudersi. Gli venne cattivo perché in quell’istante sentì di essere, per loro, qualcosa come un credito non riscosso.
Era una notte di nebbia fitta di fitta nebbia. Il mio alter ego cancellava, riscriveva, cancellava, poi rimuginò, batté il pugno alla cieca sulla tastiera in questo modo: “ hyuujnmujnm” e finalmente comprese: era il momento della Maga.
Ne aveva sempre sentito favoleggiare, ma non aveva mai voluto servirsene, un po’ per timore e un po’ per tenersi ancora un asso nella manica “nel caso in cui”. Il pauroso blocco narrativo che la sua vita stava attraversando gli sembrò appunto il caso in cui rivolgersi alla Maga era un rischio che valeva la pena di correre.
La Maga si diceva abitasse nel retrobottega di un’antica cappelleria di via Roma, stretta tra grandi catene e marchi del lusso. Per farsi ricevere si passava direttamente dalla porta secondaria sul vicolo:qui due cavalieri di due metri cadauno, bardati e piumati, ponevano un quesito a chiunque volesse entrare. Se la risposta era corretta ti lasciavano il passo, se invece sbagliata ti cavavano un occhio cadauno, di modo che da una sola risposta dipendeva il vedere l’infinita luce della verità o il non vedere proprio più una sega. In alternativa, a non voler rischiare, si poteva anche passare dal negozio: in quel caso però, per non far figure, bisognava poi comprare un cappello di quelli super-ridicoli che vendono lì, tipo coppola di feltro o bombetta di raso, che tra l’altro costano un occhio (in questo caso metaforico). Perciò, a memoria d’uomo, erano passati quasi tutti dal retro, rischiandosi la vista.
Così fece anche Ottavio Riccardi, che però stupì non trovando, alla porta, i maestosi cavalieri. C’era soltanto, appoggiato con la schiena alla parete sulla svolta del vicolo, uno di quei ragazzetti loschissimi col berretto calato fin sul naso e il bavero alzato fin sul naso, uno di quelli che in linguaggio della strada si chiamano: “sputapalline”.
SPUTAPALLINE:
A posto?
lo apostrofò tra i denti. Che in linguaggio della strada si traduce “non ti serve della droga?”
OTTAVIO:
A posto
Ma lo Sputapalline, valutando Ottavio, pensò che non doveva conoscere un granché il linguaggio della strada; e sperando che non fosse uno sbirro azzardò:
SPUTAPALLINE:
Non ti serve della droga?
OTTAVIO
No
Allora lo Sputapalline, che come tipico del suo mestiere aveva il vizio di essere molto didascalico, ringhiò:
SPUTAPALLINE:
Hashish?
OTTAVIO:
No
SPUTAPALLINE:
Erba?
OTTAVIO:
No
SPUTAPALLINE:
Mdma?
OTTAVIO:
No
SPUTAPALLINE:
Bonza?
OTTAVIO:
No
SPUTAPALLINE:
Cheta?
OTTAVIO:
Che?
SPUTAPALLINE:
Un anestetico per cavalli
OTTAVIO:
Non sono un cavallo
SPUTAPALLINE:
Prova a prenderla e poi mi dici
OTTAVIO:
No, grazie
Ottavio si affrettò verso l’ingresso, ma lo Sputapalline lo trattenne per una manica.
SPUTAPALLINE:
Aspetta capo. Per entrare c’è la domanda!
OTTAVIO:
(credendosi divertente)
Dunque sei tu il cavaliere!? Per questo hai le medicine per cavalli?
SPUTAPALLINE:
(senza capirla)
A dir la verità sono un umile sputapalline. I guardiani di questi tempi costano, tra contributi e bardature. Così la Maga ha esternalizzato, diciamo: mi fa stare qui a vendere, che comunque c’è un buon passaggio, e io in cambio le faccio gli indovinelli
OTTAVIO:
Spara
SPUTAPALLINE:
Qual è il colmo per un analfabeta?
Ottavio era pronto, ma pronto per ben altri quesiti: non ne aveva la più pallida idea. Prese un 20 euro dalla tasca, e lo stropicciò nella mano dello Sputapalline.
SPUTAPALLINE:
Risposta esatta! Bravo!
gridò in modo che si sentisse dall’interno, e si allontanò discreto scraciando a destra e a manca.
Dal fondo del gran retrobottega, venne una voce buia buia:
MAGA:
Accomodati!
La Maga era il classico donnone sui sessanta, con due gran tettone appoggiate sul classico tavolino da maga. Lo interrogò:
MAGA:
Qual è il tuo problema?
OTTAVIO (accomodandosi):
Navigo a vista come in una notte di nebbia fitta
MAGA:
E cosa vorresti?
OTTAVIO:
Vedere cosa mi aspetta
MAGA:
Allora guarda!
e gli porse un cappello tipo cilindro, ma profondissimo. Ottavio ci guardò dentro.
MAGA:
Da cosa cominciamo?
OTTAVIO:
Dall’amore
E sul fondo del cilindro si vide ammogliato.
OTTAVIO:
Ammogliato! E con chi?
Sul fondo del cilindro apparve Chiara Dalle-Belle-Canzoni; che poi è il tuo alter ego, Chiara.
MAGA:
Sei stupito?
Molto. Perché lui Chiara Dalle-Belle-Canzoni l’aveva amata, uh sì!, ma per una notte sola. Una di quelle notti fosforescenti in cui sembra che qualcosa stia per esplodere. Durante la cena lei gli aveva detto che avrebbe passato il Natale da sola, e lui ci aveva ripensato soltanto all’alba, mentre Chiara Dalle-Belle-Canzoni dormiva: il Natale: l’aveva stretta più forte. La annusava, e lei sapeva di nessun odore, come i sogni o i racconti, qualcosa di meraviglioso. Poi si era accorto che sul braccio aveva tatuato un cuore, metà pieno metà vuoto, metà bianco metà nero. Si concentrò sulla metà nera, notò che era tutta una rete di crepe, di rami, di vermi, ebbe come l’angoscia che si volessero pigliare anche la parte bianca del cuore. E non l’aveva più vista.
OTTAVIO:
E cosa faremo?
Sul fondo del cilindro apparve Agostino, il suo figlio biondo estate dei pensieri, non ricciolino come nei pensieri, ma più bello ancora, perfettamente combinato. Con le labbra e la fronte di Ottavio, e le canzoni di Chiara.
OTTAVIO:
E dove, dove saremo?
Sul fondo del cilindro apparve il Canadà. Con l’accento sulla a, gli alberi cavi, le casette piccoline e un sistema previdenziale efficiente. Mica male!
OTTAVIO:
E quale sarà il mio lavoro?
Sul fondo del cilindro Ottavio apparve, seduto alla scrivania.
OTTAVIO:
Lo scrittore?
MAGA:
No, terrai i contatti con i clienti Europei per una ditta che esporta fertilizzanti a base di festuca
Ottavio la prese come una bellissima notizia. Si fosse trovato in una delle sue fiabe o in un’illusione si sarebbe visto divo, principe, ballerino, al limite tramutato in cavallo, ma non certo responsabile dell’export di fertilizzanti. Lui, figuriamoci, la festuca non sapeva nemmeno cosa fosse. Significava che quanto aveva visto era vero.
MAGA:
E ora, per finire, vuoi sapere quanto ti resta da vivere? E’ compreso nel prezzo
OTTAVIO:
No
Rispose d’istinto. La morte è infatti quella tipica cosa a cui tutti di primo acchito diciamo “no”, perché se non tolleriamo una storia senza un finale ben chiuso la vita invece ci piace tirarla avanti indefinitamente fino a che -speriamo- non ce ne sopravvenga la noia. Ma d’altronde chi di noi non sarebbe curioso, potendolo sapere, di quanto tempo gli resta? Chi non lo chiederebbe, specie considerando che è compreso nel prezzo?
OTTAVIO:
E va bene, quanto?
MAGA
Centoventidue
OTTAVIO
Anni?
MAGA:
Euro. Ah, scusa, pensavo mi chiedessi il prezzo. Di anni quarantatré
43+31= 74. Troppo poco per averne abbastanza, ma abbastanza per consumare i sogni; e comunque in linea con la vita media maschile. Ottavio fu contento e sbalordito.
MAGA
Perché ti sbalordisci?
OTTAVIO
Perché se avessi dovuto scrivere di me in un racconto mi sarei fatto morire giovane. Non so, diciamo a 33 anni
MAGA
La tipica fissa di voi cattolici: 33, gli anni di Cristo! Buddha è morto a 80, conviene convertirsi
Risero. Ottavio pagò, centoventidue euro in nero “perché se facessi le fatture sarei una strega, non una maga”. Risero ancora. Quando Ottavio uscì nel vicolo gli sembrava tutto diverso, diverso lui, rinato: aveva finalmente una via da percorrere.
SPUTAPALLINE:
E’ andata bene, te lo leggo in faccia
OTTAVIO:
Benissimo, grazie
SPUTAPALLINE:
Prima di andare, non vuoi che te lo dica comunque, qual è il colmo per un analfabeta?
OTTAVIO:
No
Sorrise, e stavolta non cambiò idea. Gli piaceva che restasse ancora qualcosa da scoprire, nel suo futuro chiarissimo. In una vita aveva tutto il tempo di indovinare.
Era una notte di fitta nebbia,
e Ottavio Riccardi, il mio alter ego, guidava per tornare a casa. Erano passati due anni, e lui aveva quasi finito quel racconto. Aveva anche una fidanzata, ora, una delle tante sbagliate per ingannare l’attesa di Chiara Dalle-Belle-Canzoni. Attesa che si profilava lunga, visto che nel frattempo Chiara si era fatta ingravidare da un bassista. Per il resto, poche novità, pochi lavori, molti silenzi. Il futuro, insomma, tardava ancora un pochino: nondimeno la fiducia di Ottavio non era scemata, né il suo umore calato. Anzi: l’autoradio suonava una di quelle belle canzoni che gli piaceva cantare forte.
“Ailò ailò ailò ailò” Il cd si inceppò. Ottavio fissò la radio.
“Viù” disse la canzone, proprio mentre l’auto centrava di taglio il guardrail, nascosto nella nebbia.
Ottavio andò in mille pezzi.
I suoi occhi proiettati fuori dalle orbite ebbero il tempo di vedere la testa avere il tempo di pensare ‘sta cazzo di maga le ho mollato pure centoventidue euro. “Euro” fu l’ultima cosa che pensò mentre le mani, e solo le mani, fecero per un qualche riflesso nervoso il segno del “ma come?”.
Così non seppe mai il colmo per un analfabeta.
Così non si chiese mai perché proprio centoventidue euro, se tanto in nero l’IVA al 22% non c’è, e ad ogni modo non si accorse che con delle parcelle del genere una per forza ti prospetta un bel futuro.
Così non realizzò mai che già solo aver vissuto trentatré anni tutti senza smettere di sperare, e aver desiderato una casetta, pensato un bimbo come Agostino, amato una come Chiara Dalle-Belle-Canzoni, e aver fatto brillare gli occhi ai suoi vecchi, di questi tempi è mica poco.
Di questi tempi con la nebbia che c’è ci va coraggio.
Perché è vero sì che navigare a vista è una merda.
Ma è pur sempre meglio che affondare.
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