
Sul giuramento di Trump di oggi, 20 gennaio 2025, ho letto un’analisi interessante di Jianwei Xun grazie alla newsletter di TLON (non la seguite? Fatelo!) .
L’articolo completo si trova qui.
Tra le varie cose che non condivido, c’è l’uso del termine “archivio / archivista” per denotare qualcosa di anacronistico ed emozionalmente sterile.
« <i progressisti> hanno perso la capacità di produrre narrazioni magnetiche, capaci di oltrepassare le strettoie della ragione e penetrare direttamente nell’immaginario. Sono diventati archivisti della critica, custodi di un sapere che non riesce più a generare movimento, a produrre rotture simboliche.[…] Dove una volta c’era la volontà rivoluzionaria, oggi c’è solo l’archivio della rivoluzione mancata. Dove una volta c’era l’utopia come macchina desiderante, oggi c’è solo la nostalgia, un sentimento museale che cristallizza invece di aprire nuove possibilità.»
La confusione tra “archivio” e “museo” non è solo la solita fastidiosa questione disciplinare. L’archivio è materiale spontaneamente stratificato, non arbitrariamente selezionato, è materia prima informativa e proprio per questo racchiude un enorme potenziale narrativo e di suggestione.
Credo che gli archivi saranno, in questi anni dove il concetto di verità rischia di sfumare, uno dei punti saldi su cui fare leva.
Non è retorica. Per fare un esempio nostrano: per ogni Salvini del presente, c’è un Salvini in archivio che sabota gli autovelox (LINK), deride il sindaco di Bologna per i limiti di velocità (LINK), garantisce di abolire le accise (LINK), manifesta contro il ponte sullo Stretto (LINK). Riscoprirlo al momento giusto ha un effetto anche emozionale sull’opinione pubblica che nessun dibattito può avere, rimbalza virale sui social e nelle discussioni al bar con tutta l’energia che hanno le cose vere.
Sono e saranno gli archivi a dirci se una promessa è stata mantenuta, se un progresso c’è stato davvero, se le morti improvvise sono aumentate dopo il Covid, se uno è il primo presidente americano pregiudicato (è vero), o se – come ha detto il pregiudicato- “la maggioranza dei clandestini ha commesso almeno un omicidio” (è falso).
Gli archivi raccontano che chi oggi non accoglie in passato è stato accolto, o che stiamo vivendo gli anni più caldi della storia del pianeta.
Sono sempre gli archivi a metterci in guardia dagli errori che ricorrono e a suggerirci gli antidoti per i soliti veleni, e -per chi ha voglia di andare un po’ più a fondo- custodiscono le fondamenta della nostra cultura.
In un presente in cui gli archivi sono dati, e i dati sono accessibili con gli strumenti più avanzati a disposizione dell’uomo, gli archivi stanno avendo un impatto enorme sulla realtà: hanno fatto cadere governi e distrutto carriere, hanno decretato il successo di prodotti sul mercato e hanno suggerito soluzioni tecniche. Custodiscono il cuore dei nostri diritti e della nostra identità di cittadini, e anche per questo si combattono ogni giorno battaglie di ogni genere per difenderli, o per prenderne il controllo.
Certo, gli archivi di per sé sono freddi e imparziali: dovremmo prenderci tutti l’impegno di consultarli con onestà e di raccontare ciò che vi abbiamo trovato, soprattutto chi ha la responsabilità di parlare a molti (i giornalisti, gli insegnanti, gli artisti, ecc…). Penso sia faticoso, ma ci sono ottimi strumenti per farlo, e immense possibilità di farne un mezzo di coinvolgimento dirompente, magnetico e immaginifico.
Nel tempo in cui le piattaforme su cui viviamo rinunciano al fact checking e lasciano che a ognuno sia servita la verità che vuole, nell’epoca in cui sarà sempre più difficile distinguere l’autentico dal falso, l’umano dal disumano, ciò che è protetto dal tempo sarà tra le cose più difficili da travisare.
Con buona pace di Jianwei Xun, il sentimento dell’archivio è la sete di verità, non la nostalgia.
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