Sono stato bravo

Ricorda tanto la più classica delle illusioni, a cui tutti abbiamo creduto: quella di Babbo Natale.
Ai bimbi si racconta che, se stanno bravi, Babbo Natale li ricompenserà nella giusta proporzione. L’amara realtà, invece, è che quantità e qualità dei regali non dipendono da altro che dalla disponibilità di spesa dei loro genitori.


La settimana appena passata è stata quella del #tenyearschallenge.
Dieci anni fa uscivo dall’università con la mia laureetta. Finivano anni impegnativi e meravigliosi, con un bel gruppo che ora si è perso. A Palazzo Nuovo ci sono tornato da poco, e non mi sembra sia cambiato granché. Così, ho provato a ripercorrere quei corridoi con l’anima di allora.
Era un’anima tutta concentrata -perché le cose andavano fatte per bene- ma leggera. Sperimentavamo, ci infilavamo a lezioni non nostre, ci scambiavamo mail gaddiane, messaggi dannunziani, inviti a pranzo in rime incatenate, discutevamo per ore su un libro e poi in ascensore, salendo all’esame, c’era tempo di ripassare una dispensa intera. Giocavamo con i nostri nuovi strumenti come i bimbi con i regali appena scartati, senza mai chiederci – credo – a cosa di preciso sarebbero serviti.
A niente, sarebbero serviti.


Eravamo bravi. Forse eravamo convinti, ma senza dircelo davvero, che ad essere bravi e concentrati poi il mondo ci avrebbe abbracciato.
Ho passato mesi a scrivere la mia tesi, un glossario di Statuti medievali, senza mai pensare un attimo alla sua possibile applicazione pratica: perché dieci anni fa quello che facevo era semplicemente quello che facevo, e non quello che doveva servirmi a fare poi altro. Ma nemmeno ricordo di aver pensato di essere un medievista, o un latinista, o un esperto di qualcosa: perché dieci anni fa quello che facevo era semplicemente quello che facevo, non quello che ero.

Ero bravo, punto e basta. Il lavoro lo imparerò facendolo, pensavo: se ci sarà da studiare studierò, se ci sarà da alzarsi presto mi alzerò: sarò bravo, qualunque sia il mio destino, e tutto andrà bene.
Nel frattempo, però, il mondo cambiava. O magari era già così, solo che ce lo avevano spiegato male. Siamo partiti, laureetta in tasca, per cercare un posticino in un mondo che ti chiede di renderti indispensabile. Ovvero: che farà di tutto per poter fare a meno di te. Con le macchine, i computer, la delocalizzazione, l’asta al ribasso sul lavoro perché là fuori c’è sempre la coda di gente altrettanto brava. Se vuoi essere indispensabile, devi saper fare perfettamente una piccolissima cosa, possibilmente che nessun altro fa, e per dimostrare che la sai fare devi accumulare titoli e certificati. Non c’ bisogno d’altro, basta leggere un qualunque annuncio di lavoro: d’altronde a un macchinario redditizio non è richiesto di avere un opinione sul postmodernismo, o di saper comporre delle belle lettere d’amore.


Ho parlato con qualche giovane amico, di recente: senza generalizzare, oggi mi sembra che alla domanda “Cosa studi?” non si usi più rispondere cosa, ma piuttosto perché.

Studio PER DIVENTARE un…


Hanno capito come si fa, i giovani amici. Noi non c’eravamo arrivati. Noi studiavamo lettere.
E l’aver trovato, tanto per citare la mia tesi, che il medievale “anguaria” = “dazio sul carico” diventa, nell’accezione di sfruttamento del lavoro, l’italiano “angheria”, è qualcosa che serve forse a riconoscere le angherie, ma non certo a evitarle.


La settimana passata è stata anche quella della struggente notizia del ragazzino annegato con la pagella cucita in tasca. “Sono stato bravo”, voleva dire con la sua pagella. E aggrappandosi a quella certezza, confidando in quella promessa, il ragazzo è partito verso questa Italia che siamo diventati, dove tutto, anche la vita di un ragazzo, si analizza in termini di costi e benefici.
C’è un abisso tra noi e lui, in termini di ingiustizia e sfortuna. Ma se ora ci commuoviamo tanto per la sua storia, è perché abbiamo condiviso la stessa sua illusione. Che ricorda tanto la più classica di tutte: quella di Babbo Natale

bambino annegato con la pagella cucita in tasca vignetta Makkox
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