Quello che accadde a Pinky

Accettare l’invito a cena di mia madre mi è sembrato doveroso. Perché coi tempi che corrono un pasto caldo è sempre bene accettarlo, ma soprattutto perché non conosco un modo migliore di trascorrere la vigilia di Natale.
La serata è andata inaspettatamente bene, almeno fino alla fine degli antipasti freddi: lingua in salsa, lardo e castagne, insalata russa, acciughe al verde. Poi, è toccato agli involtini di melanzane.
«Questi li ho fatti per Corrado -ha annunciato la mamma servendomi per primo- sono il suo piatto preferito».
Il primo boccone è andato giù liscio, ma al secondo un rigurgito acido mi ha costretto a tossire, e a sputare il bolo nel tovagliolo. Ho sentito gli occhi della zia Rebecca fissarsi su di me.
«Che c’è Corrado, troppo sale?» si è subito allarmata la mamma.
Non so perché ho deciso di dirglielo. Se avessi avuto una vaga idea di cosa ne sarebbe seguito, se avessi potuto prevedere come mi sarei sentito ora, avrei ringhiottito la melanzana dal tovagliolo, a qualunque costo.
E invece:
«Sai mamma, in realtà temo di essere allergico alle melanzane»
«Ma se le adori!»
«Si..certo..anche perché tu le cucini benissimo, dico davvero, sono perfette. Solo che…»
«Che?» mi incalza la zia Rebecca.
«Sono buonissime punto e basta!» taglia corto allegramente mio padre, a bocca piena. È il suo ruolo quello di evitare ogni tipo di attrito.
«Solo che non appena le ingoio sto male, mi si gonfiano le labbra, mi sale il bruciacuore»
«Quello è il nervoso. Devi rilassarti, sei troppo emotivo»
«Papà, io sono tranquillissimo. Il più tranquillo che conosco. Sono solo allergico alle melanzane»
Mia madre ora sembra irritata: «Da quando questa novità?»
«Da quando…da quando riesco a ricordare, a dirla tutta».
«Sciocchezze. Sono il tuo piatto preferito fin dall’asilo. Suor Gianna diceva che gli altri bambini mangiavano solo patatine, tu invece melanzane. In tutti i modi. Non volevi altro».
Era, ahimé, la sera dei rigurgiti. Ma giuro che non avrei mai voluto iniziare una discussione, tantomeno la Vigilia di Natale. Non amo i litigi: in questo almeno credevo di aver preso da mio padre. E’ stata semplicemente l’ingenuità di un pensiero a voce alta:
«Suor Gianna…mica me la ricordo!»
A questo punto mia madre è saltata in piedi: «Quella povera suora ti ha voluto così bene, ti ha tirato su lei! E’ morta tanto giovane, e fino all’ultimo ha parlato di te come del suo bimbo più caro. Fai in modo di ricordartela, mi sembra il minimo!»
Poi, incredibilmente, ha lasciato il tavolo. Si è chiusa in camera, e da lì ha urlato, con la voce rotta: «Primo e secondo sono in cucina. Sempre che non siate allergici anche a quelli!»
«Scommetto che nessuno è allergico al gran bollito, dico bene ghiottoni?» ha stemperato mio padre. Io ero pietrificato: ho cercato solidarietà negli sguardi dei parenti, ma ci ho trovato il biasimo. E nel caso della zia Rebecca, un riflesso di disprezzo.
Non sono più riuscito a mandare giù nulla, fatta eccezione per un assaggio di crespelle, i cappelletti, gli spinaci e ovviamente il bollito, ottimo come sempre. E’ stato dopo l’irrinunciabile panettone (odio l’uvetta, ma a questo punto non mi sembrava il caso di farlo notare) che ho pensato di fare il possibile per accontentare mia madre.
Così, per la prima volta da quando ho memoria, sono andato allo scaffale blu e ho aperto il cassetto delle foto.
La notte di Natale, le luci dell’albero, la casa in cui sono cresciuto, un po’ di vino nell’esofago: pensavo mi sarei commosso alla prima vecchia fotografia, invece ho sfogliato uno dopo l’altro gli album con una strana sensazione di distanza. Alla fine l’ho trovata, Suor Gianna: piccoli occhiali dorati, rossi zigomi sporgenti, le occhiaie scure di chi non gode di buona circolazione, mani nodose da suora e un bicchiere di latte nella sinistra. La destra, è sulla mia spalla di bambino. Io sono seduto a una pianola, dovevo aver appena finito una canzone. Suono da quando avevo 3 anni: suor Gianna diceva che avevo un talento unico, e soprattutto una voce straordinaria. In famiglia ogni occasione era buona per farmi esibire davanti ad amici e parenti: per Natale preparavo un vero e proprio concertino. Poi – colpa della pubertà, credo – mi sono fatto stonato, e al piano non mi ci siedo quasi più. D’altronde, per il mio carattere, non mi oserei a suonare di fronte a qualcuno.
Che spreco, direbbe mia madre.
Fatto assorto dal vino, continuo a fissare la foto. I miei capelli mossi e foltissimi, governati a fatica in una riga di lato; gli occhi quasi verdi, fissi all’obbiettivo, allegri e sicuri; il viso pallidissimo, con gli incisivi leggermente sporgenti, da topolino.
Nessuno al mondo, nemmeno l’amico più caro, potrebbe riconoscermi. Oggi sono calvo, gli occhi e la pelle si sono fatti più scuri, i denti raddrizzati da anni di apparecchio, lo sguardo velato da anni di timidezze. Solo per i miei sono rimasto quello di allora: indole infiammabile, effervescente, inesauribile. Nei loro pensieri, temo, ho smesso molto presto di crescere: se non mi hanno conosciuto finora, è improbabile che mi conosceranno mai.
Continuo a sfogliare l’album, ora con più attenzione. Cerco me stesso in qualche stadio intermedio tra quel bambino e me come sono oggi: per capire come un naso, come un carattere, possano cambiare così profondamente forma.
Ho trovato invece una foto di me piccolissimo, in pigiamino, il mio secondo Natale. Sto abbracciando mia sorella, di un paio d’anni più grande, che mi stampa un bacino sulla fronte. Siamo circondati da centinaia di pacchetti, aperti e da aprire.
Proprio in quel momento, mia sorella passava dietro di me, con una pila di piatti sporchi.
L’ho chiamata mostrandole la foto «Rossella, guarda! Un tempo avevi un cuore, ora ho le prove!»
Lei non ha riso, non ha sorriso: «Stai dicendo che sono una cattiva sorella?»
«Sto dicendo che sei una sorella fredda»
«Non è vero»
«Tanto meglio, perché ho un’idea. Rifacciamo la stessa foto oggi, come siamo diventati, stessa posizione!»
«Smettila»
«Dai! Per Instagram, è divertente!»
«Divertente? Non ti sei divertito abbastanza a rovinare la serata alla mamma?»
«Io? Ma siete impazzite? Ho solo detto che…»
«Vabbé, senti, non voglio litigare. Quella foto non si può rifare, punto e basta»
«Cosa vuol dire che non si può?»
«Ok, ascolta – dice Rossella posando i piatti – ti ricordi dove è stata scattata quella foto?»
«Al piano di sotto, dove adesso c’è la cucina, quando era ancora la cameretta dei nostri giochi. Ma va bene anche se la facciamo qui…»
«Aspetta. Quella camera dei giochi: di che colore era?»
«…non ricordo…»
«Era azzurra. Completamente: dalla moquette al soffitto. Come fai a non ricordartene? I tuoi migliori ricordi di infanzia dovrebbero essere tutti azzurri. Invece…».
Alza le spalle, come fa quando vuol farsi ancor più antipatica di quanto non sia, e riprende i piatti.
«Non credo di aver capito, ma ok…», le rispondo, pacifico. Ma lei incalza.
«Senti – riposa i piatti – ti ricordi di quando hai cantato in duomo davanti al vescovo, e lui ti ha chiamato Cherubino?»
«Si, certo, la mamma lo racconta almeno dieci volte a ogni persona che incontra»
«E quando il gatto Pinky è caduto dal terrazzo e non si è fatto nulla?»
«Certo che me lo ricordo»
«E dove scappa Merlino nella Spada nella Roccia?»
«A Honolulu. Ma continuo a non capire il punto».
«Il punto è che ti ricordi queste cose solo perché te le hanno raccontate. Centinaia di volte, talmente tanto da saperle, da crederle tue. Ma la verità è che né le fughe di Merlino, né gli altri, sono ricordi tuoi.»
«Spiegati»
«Semplice: quando Pinky è caduto dal terrazzo, non eri ancora nato. Nella camera azzurra dei giochi non ci hai mai messo piede. E in Duomo, alla messa del vescovo, il cherubino…»
Esita. Sembra trattenere un singhiozzo.
«Il cherubino non eri tu».
L’aria si fa gelida. Le luci lampeggianti dell’albero si spengono, e non si riaccendono per attimi lunghissimi. Dal salone, improvvisamente, le voci dei parenti tacciono.
«Spiegati», continuo a ripetere, confuso.
«Quando Pinky il gatto cadde dal terrazzo, la verità è che poi non stava per niente bene. Perdeva sangue dal nasino, non si reggeva in piedi, rantolava. Finché, tre giorni dopo, la mattina del mio compleanno, l’ho trovato in cucina, più arzillo che mai. Non mi sono fatta domande: e non tanto perché avevo due anni, ma perché non si fanno troppe domande quando si è felici. Poi, qualche anno più tardi, ero in giardino con Pinky in braccio mentre gli operai facevano lo scavo per la nuova fognatura. A un certo punto vedo che si fermano, e tirano fuori dalla terra un piccolo scheletro. Lo scheletro di un gattino, di Pinky. Quello vero. La mamma, puoi immaginare, l’aveva fatto a fin di bene: Pinky era morto la sera prima del mio compleanno, e lei per non spezzarmi il cuore l’aveva sotterrato in fretta e furia e l’aveva sostituito col più simile che aveva potuto trovare in poche ore. Il nuovo gatto doveva essere comunque molto diverso dal suo predecessore. Ma io il primo Pinky non lo ricordo, o meglio: lo ricordo solo dalle descrizioni di mia mamma. E’ così che sono andate le cose»
«Perché la chiami “Mia mamma?” »
Rossella ora sembrava raddolcita. Ha allungato una mano a prendere uno dei piccoli botticini di profumo vuoti che nostra mamma colleziona su una mensola del mobile blu. L’ha aperto e me l’ha messo sotto il naso domandando: «Ricordi?»
Non so cosa mi sia successo. Ho avuto una vertigine istantanea, come un rapido spostamento d’aria dal centro della schiena fino alle punte dei piedi, e prima di accorgermene ho iniziato a piangere.
«Questo profumo lo usava Rafaèla, la signora brasiliana che veniva a stirare. Che poi è tua madre, come a questo punto avrai intuito. Si, è così: anche tu sei stato scambiato, Ramiro, proprio come Pinky
Dunque mi chiamo Ramiro!
Tra le lacrime, mi accorgo che tutti i parenti ora sono sulla soglia, e mi guardano. Il disprezzo di zia Rebecca, faticosamente nascosto per anni, ora grava tutto su di me, accompagnato da un lieve movimento orizzontale della testa.
Ramiro, Rafaèla. Il nome della mia vera mamma risveglia un’eco in vuoti ignorati per anni, ombre esili, freddi che credevo non miei. Ha ragione Rossella: quando si è felici non si bada tropo ai dettagli. Molte cose, ora, trovano spiegazione. Il mio cambio di carattere e di gusti, ad esempio, o la condiscendenza dei miei genitori di fronte ai miei troppi fallimenti, quasi le promesse di un’infanzia prodigiosa fossero le promesse di un altro. E poi le mie origini brasiliane, che spiegano la mia indefinita saudade, la passione per la Capoeira e soprattutto il fatto che sono mulatto.
Le domande mi si affollavano in testa, ma la prima è uscita tra i singhiozzi, senza prendere fiato:
«Quindi sono morto? Voglio dire: Corrado, il vero me, è…nel giardino?»
«E’ fuggito – ha risposto mia sorella, lasciandosi andare anche lei alle lacrime – una mattina, dopo un litigio con me. Ricordi quando scappasti di casa con la bicicletta, che avevi appena tolto le rotelle? La verità è che non sei mai tornato. Ti hanno cercato ovunque, e quando si sono perse tutte le speranze, ti hanno sostituito con te. Non ci assomigliavi per niente, se non per l’età: ma immagino ci sia molta più scelta quando si tratta di adottare un gatto rosso, rispetto a quando serve un bambino. Quindi, se quello che volevi dire è che sono una cattiva sorella, hai ragione. Ma lo sono stata con Corrado, non con te. Con te la questione è semplicemente che non mi piace dare troppa confidenza agli estranei. Spero capirai…»
Capisco eccome. Ma ora chiedo di restare solo.
Ho pensato a lungo, nel buio. Poi sono andato in cucina, e ho incartato gli avanzi di cotechino e un po’ di insalata russa: se d’ora in poi non avrò più una famiglia, meglio approfittare di questo ben di Dio finché c’è.
Poi, finalmente, ho raggiunto quella che fino a due ore prima era mia madre. Era in camera sua, la faccia premuta sul cuscino.
«Posso entrare, signora Biffi?»
«Oh, Ramiro, prego. Mi chiami pure Renata»
«D’accordo. E lei mi dia pure del tu»
«Non volevo che lo venissi a sapere così. Anzi, non volevo che lo venissi a sapere e basta. Ma a questo punto era inevitabile. Ti devo le mie scuse»
«Io le devo a lei», mi sorprendo a rispondere, mentre aspiro a pieni polmoni l’odore caldo che era quello della camera dei miei, il nido nelle notti di temporale. «Le chiedo scusa perché non ho saputo essere all’altezza delle vostre aspettative. Non ho particolari talenti, non ho finito gli studi, sono scapolo, senza un lavoro fisso. Chissà come avrei potuto farvi felici, se solo fossi stato il Corrado vero…»
«Non preoccuparti, Ramiro, non è colpa tua. Sono io che ho sbagliato. Non vorrei sembrarti snob, ma è ovvio che avendo raccattato da un giorno all’altro il figlio di una domestica avrei fatto meglio a ridurre drasticamente le aspettative. Per quanto, credimi, io abbia fatto il possibile per convincerti a non essere te…»
«E papà? Voglio dire, il signor Biffi? Lui sa tutto?»
«Non so, a dire il vero. Quando sei arrivato immagino abbia intuito che eri un altro bambino. Ma sai com’è fatto, gli piace il quieto vivere. Ha fatto finta di crederci e non ha fatto domande…»
«Mi dispiace, Renata. Dev’essere stata dura per voi avermi tra i piedi, specie negli ultimi anni. Con le mie richieste di denaro e i miei pranzi a sbafo. Specie considerando che non sono vostro figlio»
«Non preoccuparti, caro. Se ti capiterà di ripassare di qui, un piatto caldo te lo rimedieremo sempre. Buon Natale».
Mi ha stretto la mano, con grande cordialità. Sono uscito dalla stanza piuttosto tranquillo, com’è nella mia indole, con la mia borsa frigo di avanzi sotto il braccio. Pronto ad affrontare la mia nuova vita, o almeno le sue prime 36 ore. Non sarei neppure tornato indietro, se non avessi avuto come un’illuminazione improvvisa.
«Mamma!», l’ho chiamata rientrando. Non si è voltata, ma non dormiva. Ho proseguito:
«Mi avete sempre raccontato che la volta in cui scappai con la bicicletta, mi trovaste due giorni dopo sul ciglio di un prato, con una coperta di foglie, giusto? Fammi finire: lo so che i miei ricordi non sono altro che i tuoi racconti, ripetuti e ripetuti, eppure a me sembra di ricordare davvero…un brivido…un odore umido…»
«Vieni al dunque» ha risposto lei, alzandosi improvvisamente a sedere sul bordo del letto.
«Con quella fuga Corrado ti ha dato la prima di tante delusioni. Ora, ti prego, concentrati. Non può essere accaduto il contrario? Cioè che tu ti sia raccontata cento e cento volte di avermi sostituito con un altro, ma la realtà è che sono sempre Corrado, solo diverso da come mi avresti voluto
Ho l’impressione che ci abbia pensato sul serio. A lungo. Poi, mi ha rivolto la parola per l’ultima volta:
«Può darsi, caro Ramiro, può proprio darsi. Il fatto però è che quando vado in centro, e incontro tanti bei giovanotti eleganti e indaffarati, non riesco a non pensare che uno di quelli potrebbe essere mio figlio, così come lo ero immaginato, brillante felice e riuscito. La cosa che preferisco è che, per quanto ne so, ciascuno di loro potrebbe essere il meraviglioso Corrado che ho conosciuto bambino. Così quei ragazzoni sono un po’ tutti figli miei, e quei loro bimbi nei passeggini sono i miei nipoti, e io mi trovo tutta piena di un amore generico e diffuso. Quindi, ti prego, prendiamo per buona la storia dello scambio e non se ne parla più, intesi?»

Ecco, questa, a grandi linee, è stata la mia Notte di Natale. Una delle meno riuscite, a quanto mi è dato di ricordare, ma ho imparato a non fidarmi della memoria.
A Capodanno in compenso sono andato in una bella osteria con un paio di amici e ci siamo trovati bene, soprattutto sul bere.

Quindi, tutto sommato, non mi lamento.

 

 

 

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